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“Il mio lavoro è un gioco, un gioco molto serio.”

(Maurits Cornelis Escher)

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(Escher, Milano: 24 giugno 2016 – 22 gennaio 2017)

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(Alfons Mucha e le atmosfere Art Nouveau, Milano: 10 dicembre 2015 – 20 marzo 2016)

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“Dove esisteva una concreta e significativa lotta di classe, il comunismo poteva avere il sopravvento. Tuttavia, la guerra fredda risultò dipendere più dal burro che dalle armi, più dagli sport con la palla che dalle bombe.
(…)
Per l’Unione Sovietica il problema era semplice: gli Stati Uniti offrivano una versione di vita civile ben più attraente di quella che potevano proporre i sovietici. E questo non si doveva soltanto a un intrinseco vantaggio in termini di risorse. Il vero motivo stava nel fatto che la pianificazione economica centralizzata, sebbene indispensabile per avere successo nella corsa agli armamenti nucleari, era completamente inadeguata per soddisfare i desideri dei consumatori. I pianificatori sono bravissimi a progettare e fornire l’arma suprema a un singolo cliente, vale a dire lo Stato. Ma non hanno la minima speranza di riuscire a soddisfare i desideri di milioni di singoli consumatori, i cui gusti, per di più, cambiano di continuo.
Questa era una delle numerose intuizioni del grande rivale di Keynes, l’economista austriaco Friedrich von Hayek, che, nel saggio La via della schiavitù (1944), aveva esortato l’Europa occidentale a resistere alla chimera di una pianificazione da tempo di pace. Era proprio nella sua capacità di soddisfare (e creare) le richieste dei consumatori che il modello americano di mercato, rivitalizzato durante la guerra dal più grandioso stimolo fiscale e monetario di tutti i tempi, e protetto, grazie alla sua collocazione geografica, dalle devastazioni della guerra totale, si era dimostrato imbattibile.”

(Niall Ferguson – Occidente: Ascesa e crisi di una civiltà)

In altri termini, in una società liberista, la produzione viene regolata della legge della domanda e dell’offerta e le soluzioni vincenti sono selezionate sulla base delle esigenze dei consumatori. Il mercato è quindi il meccanismo migliore per regolare la produzione.
Secondo Ferguson, inoltre, i capitalisti hanno vinto la battaglia ideologica che li vedeva opporsi ai loro rivali dell’est constatando semplicemente:

“ …ciò che era sfuggito a Marx, ossia che i lavoratori erano anche consumatori. Non aveva perciò alcun senso tenere i loro salari al semplice livello di sussistenza. Al contrario, come l’esempio degli Stati Uniti mostrava sempre più chiaramente, non esisteva per le imprese capitaliste mercato potenzialmente più grande di quello rappresentato dai propri stessi dipendenti.”

(Niall Ferguson – Occidente: Ascesa e crisi di una civiltà)

Un concetto dato troppo spesso per scontato e sul quale sarebbe bene tornare a riflettere, specie dinnanzi ai dati sconfortanti che vedono la ricchezza polarizzarsi nelle mani di pochi.

“Nel 1960, la retribuzione netta media dei direttori generali delle più grandi aziende degli Stati Uniti era pari a 12 volte lo stipendio medio dei lavoratori della fabbrica. (…) alla metà degli anni Novanta, secondo «Business Week», lo scarto era arrivato a 135 volte; nel 1999 era di 400 volte e nel 2000 fece un altro balzo fino a 531 volte.”

(Zygmunt Bauman – “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!)

Il comunismo ha perso. A parte un pugno di nostalgici, tutti sembrano essere d’accordo. Ha perso per aver creduto di poter realizzare l’utopia di cui non eravamo (e forse non saremo mai) all’altezza. Ha perso, non soltanto per essere stato trasformato in una dittatura, ma in ragione della sconfitta subita da parte di un sistema economico più efficiente.
Gli assunti comunemente accettati come ovvi di un capitalismo incontrastato, sono riassunti con la solita lucidità da Zygmunt Bauman:

“1. La crescita economica è il solo modo di affrontare le sfide e possibilmente risolvere tutti i singoli problemi che la coabitazione umana inevitabilmente crea.
2. Il consumo in perpetuo aumento, o più precisamente la rotazione sempre più veloce di nuovi oggetti di consumo, è forse il solo, o comunque il principale modo di soddisfare la ricerca umana della felicità.
3. La disuguaglianza fra gli uomini è naturale, e acconciare le possibilità della vita umana alla sua inevitabilità ci avvantaggia tutti, mentre la manomissione dei suoi precetti non può che portare danno a tutti.
4. La rivalità (con i suoi due versanti: l’elevazione delle persone degne e l’esclusione/degradazione di quelle indegne) è insieme una condizione necessaria e la condizione sufficiente della giustizia sociale nonché della riproduzione dell’ordine sociale.”

(Zygmunt Bauman – “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!)

Dimostrare che una società diversa da quella dei consumi non solo è praticabile e auspicabile, ma anche più giusta e vivibile rappresenta, assieme al problema del terrorismo religioso, la vera sfida dei nostri giorni.
Nell’analisi del professor Ferguson, l’arma più efficace usata dall’occidente per sconfiggere il grande avversario rosso (ateo e insopportabilmente egualitatrio), si è rivelata essere il consumismo. Sono stati i blu jeans e la musica rock a vincere la guerra fredda, non (per fortuna) i sottomarini o i missili nucleari. Così l’homo sapiens ha ceduto il passo all’homo consumens (coniato da un profetico Erich Fromm), un individuo instigato all’appagamento incontrastato di nuovi bisogni. In questo universo privo di sovrani, papi, idee, in cui le cifre della produzione devono volare alte e l’accumulo di capitale sostituisce la ricerca della felicità sancita dalle costituzioni, l’unica scelta possibile pare essere il grado di dipendenza dalla droga dello shopping che ci è stata inoculata sin dalla più tenera età. Secondo J. Franzen:

“ (…) la tecnologia è diventata estremamente esperta nel creare prodotti che corrispondono al nostro ideale fantastico di una relazione erotica, in cui l’oggetto amato non chiede niente e dà tutto, all’istante, e ci fa sentire tutti potenti, e non fa scene terribili quando è sostituito da un oggetto ancora più sexy e viene abbandonato in un cassetto.”

Il contrappeso naturale di un sistema votato all’accumulo di ricchezza, basato sull’egoismo e che trae la propria forza dal diritto dei migliori di permettersi più beni materiali (o accedere a servizi riservati a pochi), sembrerebbe essere la politica e l’istituzione di quello stato sociale (il welfare) messo così tanto in discussione negli anni ottanta.
Sarebbe interessante conoscere l’opinione di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sugli effetti devastanti del loro liberismo sfrenato alla luce della crisi avvenuta nel 2008. Trenta anni prima, quest’ultima, dichiarava:

“We want a society where people are free to make choices, to make mistakes, to be generous and compassionate. This is what we mean by a moral society; not a society where the State is responsible for everything, and no one is responsible for the State.”

(M. Thatcher – dal discorso alla Zurich Economic Society “The New Renaissance”, 14 March 1977)

Si trattava della premessa necessaria a giustificare un illimitato edonismo. Chissà se la libertà di fare errori includeva il diritto delle banche di frodare i propri clienti rifilandogli titoli ad alto rischio per spartirsi la torta dei guadagni in bonus milionari. Il seguito della storia, infatti, è piuttosto triste e viene riassunto con molta efficacia dal premio nobel per l’economia Joseph Stiglitz:

“What the banks did was reprehensible. That was why there was the outrage at the greed of the bankers when we gave them money that was supposed to help them lend to others but they decided to use that money to pay themselves bonuses. For what? For record losses?”

(Joseph Stiglitz intervistato nel documentario The four Horseman)

In un contesto sociale in cui la politica ha dimostrato la propria inadeguatezza, divenendo lo scrivano delle regole dettate dalle lobby, le coscienze degli uomini sono sottoposte ad un impoverimento culturale senza precedenti. Un impoverimento che le ha rese assolutamente inadeguate alle sfide del futuro.
Lo stato democratico è basato su poteri indipendenti che si controllano a vicenda perchè l’esperienza ha insegnato a diffidare dei buoni propositi. La presenza di soggetti antagonisti ha un’incontestabile utilità. I nemici sono lo stimolo più efficace per migliorarsi. Ce lo ha spiegato proprio il capitalismo investendo l’impenditore di quell’aura romantica che lo proietta al centro dei dibattiti televisivi come un eroe, colui che combatte e trionfa in un contesto altamente competitivo; colui che ha il diritto di permettersi ogni lusso perchè lo ha meritato sul campo in ragione del suo essere “creatore della ricchezza di tutti”. Posto che i miti servono a poco, la realtà ideologica nella quale vive la nostra generazione (non solo economica ma anche e soprattutto sociale) ha finito per essere una dittatura. La dittatura dell’unica idea vincente, dell’unica soluzione possibile, dell’unico modello attuabile. Quello dell’egoismo che fa star bene tutti (di cui l’imprenditore è il campione) contro l’altruismo in cui la gente moriva (e morirebbe) di fame.
Anche volendo trascurare il discorso puramente etico di un’umanità schiava della propria avidità, viene spontaneo chiedersi come e se riusciremo a risolvere i problemi di un pianeta sovrappopolato e inquinato. Questa sfida richiede infatti qualcosa in più dell’impegno di un pugno di scienziati particolarmente pessimisti ma una presa di coscienza da parte delle masse che rilanci la battaglia educativa nella quale tutti dovremmo sentirci chiamati in causa.
Credo sia lecita la domanda di Serge Latouche, uno dei pochi economisti “non ortodossi” incredibilmente bandito dai dibattiti televisivi in quanto portavoce di una storia spiacevole:

“Crediamo veramente che sia possibile una crescita infinita su un pianeta finito?
(…)
[la] situazione è nota, almeno al mondo economico e politico, eppure si continua a non fare nulla. Al fine di conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto dell’ambiente, e di confutare la necessità di una decrescita, gli esperti e gli industriali hanno elaborato argomentazioni basate su tre punti: la sostituibilità dei fattori [un aumento di strutture, conoscenze e competenze deve poter sopperire alla diminuzione del capitale naturale], l’economia immateriale [la nuova economia fondata sui servizi e la realtà virtuale], l’ecoefficienza [ridurre progressivamente l’impatto ecologico e abbassare lo sfruttamento delle risorse per raggiungere livelli compatibili con i limiti accertati del pianeta].
(…)
Questa concezione si fonda sulla certezza che il progresso futuro della scienza risolverà tutti i problemi.”

(Serge Latouche – La scommessa della decrescita)

Un certezza assolutamente arbitraria, sconfessata dai dati mondiali. Per i fautori della decrescita l’unica soluzione possibile all’impoverimento delle risorse sarebbe la riscoperta di uno stile di vita più sobrio, basato sul risparmio energetico, prima di compromettere irrimediabilmente la capacità di rigenerazione del pianeta. Questo implicherebbe un ritorno alla localizzazione della produzione contro l’imperante globalizzazione. Quindi un modello sociale radicalmente diverso, con implicazioni non soltanto economiche ma anche filosofiche e morali. L’ennesima utopia? Sicuramente. Ma guidata da una ragione ben più pressante dell’egualitarismo comunista, una ragione irrefutabile: la distruzione della biosfera nella quale è nata la vita.
Del resto il tema della sostenibilità (che per Latouche rappresenta una soluzione assolutamente insufficiente) risulta centrale anche nel lavoro di economisti come il premio nobel Jeffrey Sachs:

“La sfida che definisce il XXI secolo sarà affrontare la realtà che l’umanità condivide un destino comune su un pianeta affollato.”

(Jeffrey Sachs – Il bene comune)

Di fondamentale importanza è la questione dell’utilizzo del PIL come strumento per valutare il benessere della società:

“ … l’ossessione del Pil porta a considerare positiva ogni produzione e ogni spesa, incluse le produzioni nocive e le spese necessarie a neutralizzare gli effetti negativi delle prime. “Si considera ogni attività remunerata,” osserva Jacques Ellul, “come un valore aggiunto, generatrice di benessere, mentre in realtà l’investimento in attività per eliminare l’inquinamento non aumenta affatto il benessere, tutt’al più permette di mantenerlo. Di certo, in qualche occasione, l’aumento del valore da dedurre è superiore all’aumento del valore aggiunto.””

(Serge Latouche – La scommessa della decrescita)

Che riprende uno dei discorsi più profetici di Robert F. Kennedy ( https://www.youtube.com/watch?v=77IdKFqXbUY ).
Si dovrebbe, in sostanza, ragionare in termini energetici anzichè di profitto.
Il ruolo giocato dagli scrittori in questa partita sembra irrilevante. Eppure le sue conseguenze sul piano educativo sono sconvolgenti. L’italia non ha mai avuto alcun Tolstoj purtroppo, né sembra destinata ad averlo per i prossimi anni. O forse lo ha avuto e la sua opera è finita tra le migliaia di manoscritti giudicati invendibili da altrettanti editori (anche loro “soggetti a scopo di lucro”) che continuano a preferire storielle in pennivendolese a genuine opere di pensiero. Eppure c’è stato un tempo in cui la letteratura ha rappresentato uno strumento divulgativo eccezionale. Più tempo passa, più la questione ecologica diventa morale. Il diritto dei posteri ad ereditare un pianeta vivibile è qualcosa che ogni genitore capisce fin troppo bene sulla pelle dei propri figli ma finisce per ignorare riferendolo al fumoso concetto di umanità.
Se le grandi ideologie sono morte è giunto il momento di resuscitarle o di crearne di nuove. Perchè su questo terreno si gioca la battaglia più difficile che il genere umano abbia mai affrontato: quella della sopravvivenza a se stesso. Per citare ancora Bauman:

“Il perseguimento della felicità dovrebbe incentrarsi sulla promozione di esperienze, istituzioni e altre realtà culturali e naturali di vita in comune, anziché concentrarsi sugli indici di ricchezza, tendendo così a ricollocare la comunità umana come un sito di competitività e rivalità individuale.
(…)
Ciò che serve è niente di meno che un radicale ripensamento e una revisione del modo in cui viviamo e dei valori che lo guidano.
(…)
Quello che si richiede, proprio in tempi di crisi, è che si sviluppino visioni o almeno idee mai pensate prima.”

(Zygmunt Bauman – “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” Falso!)

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P.S. Chi fosse interessato ad approfondire la storia del secondo quadro che ho scelto per il post (“Trasportatori di chiatte del volga”, di Ilya Repin) può farlo a questo indirizzo: http://en.wikipedia.org/wiki/Barge_Haulers_on_the_Volga

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(Marc Chagall, Milano: 17 settembre 2014 – 1 febbraio 2015)

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(Napoli: cappella Sansevero)

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“Poi, una sera di molta luna, trovandosi in un boschetto ad andare, trasognata secondo il suo costume, coi piedi che le passeggiavano qua e là, temerari con tante angui latenti nell’erba, a un certo punto, dentro il fitto d’alberi dove s’era cercata una cuccia di buio, un filo di musica s’era infilato, via via sempre più teso e robusto, fino a diventare uno spago invisibile che la tirava, le circondava le membra, gliele liquefaceva in un miele umido e tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire.
(…)
Lui sapeva parole che nessun altro sapeva e gliele soffiava fra i capelli, nei due padiglioni di carne rosea, come un respiro recondito, quasi inudibile, che però dentro di lei cresceva subito in tuono e rombo d’amore. Era un paese di nuvole e fiori, la Tracia dove abitavano, e lei non ne ricordava nient’altro, nessuna sodaglia o radura o petraria, solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate di petali, quando li strappava dal terreno coi pugni, nel momento del piacere. Giaceva con lui sotto un’ampia coppa di cielo, su un letto di foglie e di vento, mirando fra le ciglia in lacrime profili d’alberi vacillare, udendo un frangente lontano battere la scogliera, una cerva bramire nel sottobosco. Si asciugava gli occhi col dorso della mano, li riapriva. Lui glieli chiudeva con un dito e cantava. Ecco già si fa sera, ora negli orti l’oro dei vespri s’imbruna, la luna s’elargisce dai monti, palpita intirizzita fra le dita verdi dell’araucaria… Euridice, Euridice! E lei gli posava la guancia sul petto, vi origliava uno stormire di radici, e battiti, anche, battiti lunghi d’un cuore d’animale o di dio.”

(Gesualdo Bufalino – Il ritorno di Euridice)

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(Padova: cappella degli Scrovegni)

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“- (…) Provo orgoglio davanti agli uomini, serpenti sempre pronti a drizzarsi contro chi li sorpassa, e senza schiacciarli con il piede, ma lo depongo davanti a Dio che mi ha tolto dal niente per farmi quel che sono.
(…)
– Anch’io, come accade a ogni uomo almeno una volta nella vita, fui trasportato da Satana sul più alto monte; là egli mi mostrò il mondo intero e mi disse, come a Cristo: “Su, figlio degli uomini, che cosa chiedi per adorarmi?”. Riflettei a lungo perchè da molto tempo ero divorato da una terribile ambizione, poi risposi: “Ho sempre sentito parlare della Provvidenza, ma non l’ho mai vista ne ho mai visto qualcosa che le assomigli, il che mi fa credere che non esista. Voglio essere la Provvidenza perchè non conosco nulla al mondo di più bello, di più grande, di più sublime che ricompensare e punire”. Ma Satana abbassò la testa sospirando. “Ti sbagli,” mi rispose “la Provvidenza esiste, ma non la vedi perchè essendo la figlia di Dio, è invisibile come suo padre, e non hai visto nulla che le assomigli perchè agisce in segreto, con mezzi nascosti e oscuri; tutt’al più posso farti il suo agente.” Concludemmo il patto: forse io perderò l’anima ma non importa: per me e stato un buon affare.”

(Alexandre Dumas – Il conte di Montecristo)

Alcune pagine indimenticabili svelano il doloroso destino di Edmond Dantés, oggetto di un complotto che culmina con il suo arresto. Per sopravviere alla disperazione di una prigionia durata quattordici anni, non resta gli che ripartire dai sentimenti. Così la vendetta anima l’eroe di Dumas con una forza disumana che lo rende strumento cosciente della Provvidenza.
Il Conte di Montecristo racconta la radicale metamorfosi prodotta dalla sofferenza con la mancanza di realismo tipica dei romanzi di appendice, accompagnando il lettore attraverso una rocambolesca serie di avventure nell’Europa dell’Ottocento. La notevole efficacia narrativa bilancia un ostinato moralismo. E il modo in cui la silente giustizia divina opererebbe nell’ombra per riequilibrare le miserie degli uomini fa sorridere senza smettere di avvincere. Allora non resta che tuffarsi tra le righe di questo libro irreale e retorico che si lascia sorbire con voracità, forse proprio per la capacità di evocare una favola alla quale non ha mai creduto nessuno.

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“Una donna alta, ricciuta, spigolosa, sempre sull’orlo di un attacco nervoso, la cui magrezza crudele era così in disaccordo con una vorace golosità. Le sigarette sottili che aveva sempre in mano erano esteticamente congrue alle dita ossute e acuminate. Certe volte, a guardarla in controluce, avresti detto
che si trattava di uno scheletro fumante. Altre volte, sotto le spietate luci al neon della cucina dei Pontecorvo, poteva sembrarti una di quelle tenutarie dipinte da Toulouse-Lautrec.
(…)
I suoi urticanti ragionamenti, al contrario di quelli del marito, erano sostenuti soprattutto dal vigore dei pregiudizi e dalla ferocia dei nervi spezzati. La fica, pensava certe volte Leo. E’ la fica, l’organismo più
capriccioso inventato da madre natura, che la fa parlare.”

(Alessandro Piperno – Persecuzione)

The painting SATURN by the Spanish artist GOYA.

Letteratura e fede

“You hear all this whining going on, ‘Where are our great writers?’ The thing I might feel doleful about is: ‘Where are the readers?'”
Gore Vidal

“Nella fiction puoi essere molto più sincero senza doverti continuamente preoccupare di fare del male a qualcuno. […] Il tuo dono non consiste nell’impersonare la tua esperienza ma nel personificarla, nell’incarnarla nella rappresentazione di una persona che non sei tu. Tu non sei l’autore di un’autobiografia, sei un personificatore”
Philip Roth

Lessi il mio primo, vero romanzo all’età di tredici anni. Potrei affermare che fu amore a prima vista e che quel libro divenne, immediatamente, il capostipite di una serie ininterrotta, ma mentirei. “Il Ritratto di Dorian Grey”, acquistato in una piccola edicola Ericina gestita da un’antipaticissima ex compagna di classe della mamma, fece storia a sé nella carriera del lettore in erba che ero e rimase una parentesi isolata, scalfita da qualche rara fuga nel mondo dei classici. Il digiuno venne interrotto in modo saltuario. Ricordo abbastanza bene, per esempio, l’antichissimo “Ivanhoe” prestito di un caro amico, o le febbricitanti ore “in rima” del “Cyrano de Bergerac”, assaporate verso i sedici anni in cucina quando tutti guardavano la TV. In seconda liceo, toccò a “Il gattopardo”. “Gran libro, sia chiaro, ma noioso”, pensai maldestramente, salvando quel: “perché tutto rimanga com’è necessario che tutto cambi”. Poi, tornai a romanzi di genere: fantascienza, gialli e ad una miriade di piccoli e grandi saggi, prevalentemente scientifici.
Tuttavia, mi compiacevo di essere il nipote di un grande lettore. La mamma raccontava le giornate in campagna del nonno, trascorse accanto a pile di libri prestati in biblioteca, e tra i quali spiccava “Guerra e pace”, riletto “regolarmente”. L’ambientazione storica e il rispetto per la saggezza familiare furono sufficienti per guardare i bastioni dei suoi due tomi con tutto il timore di cui ero capace. Così, sfiorai l’esperienza di quella lettura varie volte, eludendola con la paura di non esserne all’altezza. Il momento giusto arrivò a ventidue anni. Strinsi tra le mani il primo dei volumi di Tolstoj provando un certo smarrimento dinnanzi alla fittissima presentazione di nobili e principi delle pagine iniziali. Per nulla scoraggiato, composi, riga dopo riga, l’albero genealogico dei protagonisti sino a scoprire, con una nota di dolcezza, che uno di loro si chiamava Andrea: come il nonno. Iniziai a macinare trenta pagine al giorno contando i minuti che separavano lo studio dalla lettura. Arrivai a punte di settanta, cento pagine nei momenti più emozionanti. Ricordo, ad esempio, una notte in cui rimasi sveglio sino alle tre del mattino per apprendere del rapimento di Natasha e una particolare commozione dinnanzi alla quercia che cambiava aspetto agli occhi di un innamoratissimo Andrea.
I miei primi tentativi di scrittura risalgono più o meno allo stesso periodo. Verso i ventun anni avevo progettato un romanzo di fantascienza lasciato, ovviamente, incompleto. Subito dopo, avevo scritto un primo racconto e un romanzo breve che “ripasso”, ancora oggi, con molta tenerezza. E poi una valanga di short stories tenute nel cassetto per anni.
Uno degli atti più complicati della crescita è ricostruirne le fasi. In questo tentativo, la scrittura diviene un supporto abbastanza valido, perché consente di fissare le idee liquide di un cervello in continua trasformazione. Ma mentre, alcune volte, il “click” che attiva certi meccanismi lascia un segno percepibile, altre, l’evoluzione, presunta o reale, avviene in sordina. Fatto sta che dal limbo di “Guerra e pace” uscii lettore.
Incantato, passai ad “Anna Karenina”. Di seguito a “Madame Bovary” e scoprii Flaubert. “L’ultimo giorno di un condannato a morte” spalancò le porte della Francia letteraria. Rimasi senza parole dinnanzi alle fantasie che il giovane spirito del protagonista snodava “ricamando di arabeschi infiniti il tessuto di questa misera vita”. Più in là, arrivarono Goethe, Marai e Dostoevskji.

Cos’era quel mondo che pareva tendermi una mano? Qual era la promessa nascosta dietro le parole di cui era composto? Il primo errore commesso dal lettore in erba è cercare risposte. Le domande sono personali, sempre; e il modo in cui vengono formulate dipinge un ritratto abbastanza convincente della persona che abbiamo dinnanzi. Le mie erano piuttosto ingombrati oltre ad affondare le proprie radici nell’infanzia. Il primo pensiero “cosciente” era stato la morte, quella spaventosa possibilità di “perdere tutto” che veniva a farmi visita impedendo il gioco del sonno e iniettava nelle vene il bisogno di farsi abbracciare dalla mamma.
Quando l’adolescenza incrinò la maschera puerile del cattolicesimo cui ero stato educato, facendolo con l’efficienza che tutti conosciamo, cominciai a cercare oltre i paletti della teologia e trovai in Tolstoj la guida ideale. Devo sicuramente a lui il periodo più “religioso” della vita, l’unico in cui sia riuscito veramente a credere in dio e fare l’esperienza delle fede. Il “miracolo” accadde leggendo “La morte di Ivan Il’ic”, in un momento di salute complicato. Il protagonista della storia si trovava catapultato, all’improvviso, dalla placida routine quotidiana, nella dimensione cianotica e asfissiante della malattia che precede la morte, sino all’ovvia conclusione. Ebbi la sensazione di sentire il buon Lev sussurrare sadicamente: “arriverà anche per te”, cosa che, per quanto ne sappiamo, ripeteva a se stesso con una certa insistenza. In quel momento, l’unica risposta convincente mi parve, come accade a molti, la fede. Avevo letto i Vangeli con un certo entusiasmo, fasciando l’anima impaurita nella magia delle beatitudini o col poeticissimo incipit di Giovanni. A farmi cambiare idea, arrivò un estratto inquietante che invocavo spesso dinnanzi a situazioni sentimentali o personali dolorose. Il testo, di regola, dovrebbe fare un altro effetto ma io ebbi la freddezza di usarlo in modo “improprio”. Gli evangelisti, veri o presunti che siano, scrissero i loro “racconti” additando pene terrene ricompensate da premi post mortem e quindi non verificabili. Tra le poche frasi che fanno eccezione c’è questo breve estratto di Matteo: “Non siate dunque in ansia, dicendo: “Che mangeremo? Che berremo? Di che ci vestiremo?” (…) il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più.”. Non era vero. Bastava dare un’occhiata in giro per averne la prova. Ma soprattutto non lo era per me. Malgrado credessi e lo facessi senza riserve, “queste cose” restavano parole. Ripercorrendo, adesso, i sillogismi un po’ banali di quegli anni, mi consolo pensando a quanti continuano a concepire una “religiosità” basata su presupposti tanto deboli e puerili per tutta la vita. Cercai di fare un passo avanti. Le letture scientifiche non favorirono un amore per dio in dissolvenza, inducendo, piuttosto, la revisione di quegli autori il cui ateismo avevo trovato fastidioso. Proclamarmi agnostico significò innamorarsi di Bufalino, Proust e Celine e, più tardi, di Hemingway, Stainbeck e Fitzgerald. E poi ancora Roth, Franzen e Mc Carthy (ricorderò per sempre una discussione veramente bizzarra, in cui una cattolicissima blogger era riuscita a vedere in quest’ultimo, chissà come, un alfiere della fede).

Il panorama si allargava, spuntava una pletora di esempi dissonanti e la poliedricità letteraria era un universo in espansione come quello scrutato da Hubble. Gli scrittori avevano scelto strade originali, esprimendo se stessi nella con assoluta unicità e cercando una musicalità che spaziava dalla sinfonia alla canzonetta di strada, dalla ballata all’opera. Perché? Cos’era questa immensa voglia di spiegarsi? E quale parte potevo avere in un mondo tanto perfetto e inarrivabile? Sono domande che tutti i veri lettori si sono fatti e che gli scrittori hanno assaporato con maggiore insistenza. Il fedele si interroga su dio, lo scrittore sulla scrittura. Mentre mi risulta faticoso comprendere il primo, posso ipotizzare, con ragionevole certezza, che le risposte del secondo siano di carta. Sta tutta lì la differenza tra intrattenimento e letteratura, la stessa differenza rimarcata da chi “scrive veramente” con insistenza e, forse, eccessivo orgoglio. In celebrazioni solitarie, consumate al chiuso delle pareti domestiche come in un parco pubblico o sui vagoni di una metro, i protagonisti del gioco chiamato romanzo incrociano le spade tessendo la più incredibile forma di dialogo possibile tra due esseri viventi. Un dialogo che supera il tempo, lo spazio e le differenze come nessun altro. Lo scrittore, non potendo rispondere a tono alle battute del lettore, dissemina le proprie parole di immagini che il secondo coglie in ordine imprecisato e finiscono, egualmente, per fornire l’impressione di una presenza viva. Ho parlato di “impressione” ma il termine è riduttivo. Non credo sia azzardato chiamare il legame autore-lettore amicizia. Personalmente, interiorizzo i libri ponendoli sullo stesso piano delle esperienze e questo livellamento verso l’alto mi pare del tutto naturale. Si tratta di acquisire il racconto di un amico, così come avviene con uno in carne e ossa.
Ho già osservato che il rito si consuma in solitudine. Roth sostiene che un leggere libro richiede concentrazione, “devozione alla lettura” e che farlo in più di due settimane vuol dire non leggerlo veramente. Spiegare il senso di questa affermazione a chi “non legge veramente” è un esercizio complicato almeno quando far comprendere il velo di tristezza che proviamo scorrendo la classifica delle vendite. Sempre Roth dichiara che il libro morirà tra venticinque anni, non potendo “competere con lo schermo, di qualsiasi tipo sia: televisivo, cinematografico, di un computer” e che, al più, rimarrà un oggetto “settario”, culto di un’elite ristretta. La mia opinione è che lo sia sempre stato. Franzen va anche oltre, astraendo dal “moderno” concetto di lettura le ragioni di una profonda depressione e asserendo come “sia diventata una tortura” vedere un amico smettere di leggere e “un altro allegro, giovane scrittore fare TV in forma di libro”. Riassumerei così: meno libri (le alternative sono molte, migliori, seducenti) e, se proprio libro deve essere, che sia “da classifica”, pescato dove riposano quelle storie “mozzafiato” che “tengono incollati alla pagina” dall’inizio alla fine. Prodotti. La “moda editoriale del momento”, il libro di Natale o delle vacanze estive. Senza imbrattare il foglio con nomi che potrebbero offendere i gusti di tanti, potrei azzardare una ricostruzione della recente mediocrità “letteraria” ripensando alla statistica della mia vita di pendolare. Non lo farò. Vorrei solo osservare come la metropolitana suffraghi il marketing in modo impressionante, riproponendo, quotidianamente, i “top” del momento. La stragrande maggioranza di individui impegnati sui best-sellers sono tutto tranne che lettori. Si tratta, semplicemente, di persone intente a colmare il tempo tra due attività: lo stare in casa e l’essere in ufficio. Lo dico senza alcuna forma di snobismo. Ho conosciuto tanta gente da “classifica”. Di solito, dopo i primi quattro o cinque titoli cambio argomento. Lo faccio per la semplice ragione che le osservazioni sul tema non sono pertinenti alle mie domande, come se chiedessi: “ti piace il vino?” per sentirmi rispondere: “adoro la coca-cola”. Il vino è una bevanda difficile, la coca-cola no. Il primo si serve in calici e dà un piacere che richiede educazione, la seconda va benissimo con l’hamburger del Mc Donald. Ora, non credo ci sia nulla di male nell’accontentarsi delle cose facili, nel magiare un po’ di junk food ogni tanto. Mi sconcerta, invece, e non poco, la superficialità della gente nell’avvicinarsi a qualcosa di più impegnativo. Per farlo veramente, è necessario lo spirito giusto, un gesto che va al di là del puro intrattenimento. Serve pazienza, concentrazione, sforzo. Si deve essere disposti a “pagare” per goderne: un “compromesso” lontano anni luce dalla mentalità consumistica, legata, come sostiene Bauman, alla formula “soddisfatti o rimborsati”. In un mondo che ama le cose facili, i libri sono di troppo. Il pensiero è di troppo e la riflessione spaventa.

Tra i due opposti, romanzi veri o romanzi fast-food, lo scrittore è chiamato a scegliere una via in accordo con l’artista che sente di essere. Incantare, allettare, sedurre o scoraggiare, infastidire, ignorare? Il libro “deve fare cassa” e la questione si riduce alla forma: riuscire ad avere un pubblico o morire nell’anonimanto? Si scrive per se stessi, obietteranno i puristi (ne esistono ancora?), ma non solo. Il testo è un seme che sboccia nella mente del lettore. L’insufficienza delle parole stimola il cervello, induce una naturale opera di compensazione. Così, il libro si propaga nello spazio tempo rinnovandosi continuamente, evolvendosi e adattandosi. Ma il suo incantesimo necessita un presupposto: che venga letto. Gli scrittori lo sanno e inseguono scelte stilistiche precise, anche a rischio di perdere seguaci. E’ vero, leggere è un piacere, ma come il masochismo della carne, ne esiste uno letterario. A chi il profitterol, a chi la torta margherita. Faulkner ed Hemingway. Su tutto, un unico denominatore comune: fare arte. Come ho detto, spiegare la lettura a un “non lettore” è cosa ardua. Aiuta l’educazione: superare un certo numero di pagine. Per me, un buon romanzo è “anche” una bella storia. Ma adoro l’ansia dello scoprire il “finale” allo stesso modo delle riletture necessarie a comprendere un messaggio parecchio articolato. Proust mi fa volare…
Un vecchio adagio suggerisce che la letteratura sia un mezzo per sfuggire alla solitudine attraverso la solitudine. Leggere significa “imparare come stare soli” suggerisce Franzen. Quando la superficialità del quotidiano sfinisce, il lettore ricerca l’antitodo alla banalità attraverso i libri. Leggendo, dialoga con persone di cui si fidia, che ama per la loro umanità e che, incredibilemente, riescono a condividere le sue paure meglio di esseri reali, crocefissi o divinità celesti. Il mistero di tale umanità “fissata sulla carta” è il segreto del loro genio e per gustarne l’ostia occorre solo buona volontà e passione.
Proust analizza queste dinamiche nel breve saggio “sulla lettura”. Lo fa con la maniacalità e lo stile eccelso che lo rende una specie di divinità tra i letterati, descrivendo il piacere dei pomeriggi passati tra le pagine con un livello di dettaglio da capogiro. Nell’ingrandire le sensazioni allo stadio dei quark, scarnifica l’atto del leggere allo stesso modo della vita. Decostruire istiga la solitudine e indirizza il singolo verso una dimensione interiore. Nel silenzio, le parole degli “altri” suonano di esempio, aprendo le porte a quella ricerca che costituisce il centro del discorso letterario.

Inquadrando la vita su queste coordinate non rimangono molti temi da trattare. Nel mio caso arte e fede hanno sempre costituito un binomio piuttosto tirannico. L’amore amplia il duopolio con una certa diffidenza che lo smussa lievemente, incrinandolo verso uno studio comportamentale e quindi psicologico.
Proclamarmi ateo richiese una notevole dose di coraggio. Risolsi i dubbi scoprendo Laborit e guardando con orrore e ammirazione il film di Resnais tratto dalla sua opera: “Mio zio d’america”. Sconfitta la religione rimase la scrittura oltre ad una sparuta pattuglia di valori morali, disorganizzati dalla perdita del proprio condottiero ma eroici nella nuova solitaria condizione, che il mondo si divertiva a screditare con efficienza sorprendente.
Perché scrivere, dunque? Roth lo fa raccontare ad un giovane Zuckerman da un bizzarro professore del colledge: “scrivere per scrivere”, afferma l’uomo e Nathan capisce. Nell’universo desolante del terzo millennio, quell’universo in cui persino l’estetica appare un fine discutibile e il piacere, lo stesso sotteso da Proust, rimane beneficio esclusivo di chi sa apprezzarlo, alla scrittura non resta che una dimensione godereccia al pari di altre “droghe”. Così, lo scrittore scrive, il lettore legge e questi due amanti virtuali flirtano in modo assolutamente perfetto ed egoista. Il primo assapora il piacere della creazione, il secondo il genio del primo, in un circolo virtuoso o vizioso (fate voi) che si ripete con insistenza ad ogni parola, pagina, romanzo. Ed è qui che la scrittura parla una lingua universale: intrattiene, commuove, rilassa, stimola, seduce, ferisce. In poche parole: dà da pensare, sentire, ricordare. Pasce un cibo perfetto e lo fa in modo instancabile e maniacale, solleticando il genere di “rinforzo” che è possibile definire dipendenza.

Il più grande difetto dei veri scrittori potrebbe essere, dunque, la loro religiosità: non la religiosità “reale” (più o meno sincera che sia), ma quella manifestata “sacrificandosi” alla propria opera. L’atto sostituivo di forgiare un idolo di carta e adorarlo come fecero gli ebrei mentre il buon Mosè riceveva le tavole della legge, pare un stramberia da massoni, il risultato distorto dell’alienazione mentale umana o la fuga disperata di un’elite aristocratica e idealista. Ma se dovessi spiegare ad un lettore di “best sellers” cos’è la letteratura, non troverei nulla di più immediato e convincente. Le prove a carico di questa tesi sono tante e incontrovertibili. Su tutte, il tempo dedicato a leggere e scrivere, cioè alla meditazione o alla “preghiera” attiva. Se si obbiettasse, ricordando Pascal, che il credente venera qualcosa o qualcuno in nome dell’eternità, mentre lo scrittore produce un “oggetto” (cioè il libro) che allunga la propria vita “solo” di qualche scintilla, verrebbe spontaneo argomentare, con cinismo, partendo dai “premi” delle religioni: cessazione del dolore, contemplazione perpetua di “una luce buona” al di là dello spazio-tempo, beatitudine eterna. Concetti umani, minuscoli come formiche ai piedi di giganti, appiattiti da una distanza infinita. Dovrebbero essere queste le promesse con cui sedurre il nostro bisogno di continuare ad esistere, di non sparire polverizzati nel nulla? Perdonateci se non ci convincono troppo. Perdonateci se ci scappa un sorriso e preferiamo cambiare discorso. Perdonateci, ancora, se la nostra attenzione verrà catturata da oggetti più futili. Forse, scegliere la letteratura non è poi così male. Ma, anche escludendo dio, scrivere ci pare un’opzione migliore dello shopping, del successo, della carriera… o di qualsiasi altro idolo consumistico che l’occidente “religioso” adora, di fatto, più del creatore in cui afferma di credere. E qui, torniamo a Tolstoj, sdegnato dalle riunioni in cui i nobili russi venivano arringati e commossi da falsi predicatori col fine di sollecitare una fede incapace di andare oltre qualche lacrima.
Quanto tempo dedica la media dei cristiani all’adorazione del proprio dio? E quanto a tutto il resto? Per evitare confronti imbarazzanti è preferibile parlare di altro, perchè, a giudicare dalla società, il cristianesimo è stato “il più grosso fallimento della storia”. E mentre persino un ex “possibilista” come Hawking dichiara candidamente che “la scienza può spiegare l’universo senza il bisogno di un creatore” e Roth ci sconcerta con il suo cinismo affermando che “quando il mondo intero non crederà più in dio, sarà un posto migliore”, preferiamo rifuggiarci nell’ironia di Woody Allen augurando a questo stesso dio di avere “una buona scusa” e continuare a scrivere.

Facciamo ciò che amiamo e ci da piacere, facciamolo perché siamo convinti sia bello e godiamone con tutta la spregiudicatezza di cui siamo capaci. Ma, qualsiasi sia la nostra scelta, teniamo presente una cosa. Per quanto possa sembrare bizzarro, nella comunità umana, alcune persone, chiamate scrittori, hanno creato un religione o se preferite un club in cui si dialoga dell’uomo con la bellezza dell’arte e altre persone, detti lettori, hanno passato la propria vita a gustare il messaggio dei primi in tutta la sua incredibile varietà: gioiendo, soffrendo, commuovendosi per quei racconti in cui rivedevano se stessi e il loro dramma, nella celebrazione continua di ciò che siamo e saremo per sempre. Il segreto è tutto lì: non facciamo letteratura perché ci piacciono gli applausi, perchè “leggere un libro è importante” (detesto tale genere di comandamenti) o perché riteniamo l’abitudine di trascorrere l’esistenza tra le pagine una pratica particolarmente meritoria o degna di nota. Lo facciamo perché amiamo questo genere di masturbazione mentale più di ogni altra cosa e il continuo confronto con noi stessi, quello specchio in cui i classici costringono a riflettersi, ci procura un tormento di cui non possiamo fare a meno. Noi che scriviamo, tale tormento lo chiamiamo vivere e ci è indispensabile quanto l’aria o il cibo. Siamo così incantati dai nostri simili, stupiti dinnanzi alle emozioni, affascinati dalle debolezze comuni e dalla musicalità della parola, da non riuscire a distogliere lo sguardo dalle righe come i cristiani da dio, gli scienziati dalle equazioni o i musicisti dalle note. Ma scriviamo, anche, come confida De Lillo a Franzen nell’intimità di una lettera personale, “per sentirci liberi”, perchè farlo ci regala l’ultima, esigua speranza di difesa “della nostra individualità” compressa da un mondo pensato per appiattirci. Leggiamo e nulla ci pare “più sexy di un lettore”. Leggiamo e parliamo di libri con un feticismo assoluto, cercando i nostri simili come rabdomanti nel deserto. Leggiamo, e gonfiamo le palpebre di speranza, sognando un paradiso in cui comporre pensieri per iscritto. Leggiamo e siamo orgogliosi della nostra miseria perché questo orgoglio è l’unica soddisfazione concessa in un universo in cui la parola “significato” continua a restare un concetto miseramente “umano, troppo umano”.